Nei geni dei popoli nativi del Messico il perché delle loro differenti risposte ai cambiamenti globali



I gruppi etnici indigeni del Messico sono particolarmente vulnerabili alle trasformazioni degli stili di vita e della dieta susseguitesi in epoca moderna. Tanto che, in alcuni casi, adattamenti biologici sviluppati nel corso dei millenni dai loro antenati e da loro ereditati si rivelano oggi non più vantaggiosi, rappresentando un rischio per la loro salute.

Lo dimostrano i risultati di un nuovo studio internazionale coordinato da ricercatori dell’Università di Bologna e pubblicato sulla rivista Molecular Biology and Evolution e segnalato come “Research Highlight” dalla rivista Nature Ecology & Evolution. Gli studiosi hanno analizzato il genoma di circa trecento individui appartenenti a 15 gruppi etnici messicani per ricostruire le loro storie evolutive e capire come queste possano aver contribuito a influenzare le loro risposte ai cambiamenti globali in atto.

“Abbiamo focalizzato l’attenzione in particolare su comunità indigene non mescolate, il cui patrimonio genetico potesse rappresentare un’approssimazione il più fedele possibile di quello delle popolazioni appartenenti alle principali civiltà precolombiane sviluppatesi in Messico, tra cui quella Maya e quella Azteca”, spiega Marco Sazzini, docente al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna e coordinatore dello studio. “In questo modo è stato possibile indagare le basi genetiche delle caratteristiche biologiche tipiche di questi popoli, che i loro antenati hanno evoluto in migliaia di anni prima dell’arrivo degli europei nel continente americano”.

 

ADATTAMENTI BIOLOGICI E CAMBIAMENTI GLOBALI: UN APPROCCIO EVOLUZIONISTICO

Grazie all’azione della selezione naturale, queste popolazioni hanno evoluto peculiarità biologiche che hanno permesso loro di adattarsi nel corso del tempo alle condizioni ambientali e sociali in cui le loro civiltà si sono sviluppate. La radicale trasformazione di queste condizioni in epoca moderna e i cambiamenti globali in atto ancora oggi sono stati però talmente rapidi da non permettere un ulteriore adattamento.

I risultati ottenuti dagli studiosi mostrano infatti che numerose caratteristiche biologiche dei popoli nativi messicani, compresa la suscettibilità ad alcune malattie, sono state variamente influenzate dalla loro complessa e diversificata storia evolutiva: una serie di dati che ora potrebbero rivelarsi utili per mettere a punto azioni specifiche in campo medico.

“Le informazioni che abbiamo raccolto potranno essere utilizzate per sviluppare iniziative di prevenzione mirate per ciascun gruppo etnico, in un’ottica di medicina personalizzata”, conferma Claudia Ojeda Granados, post-doc dell’Università di Bologna, supportata da una borsa di studio del National Council of Science and Technology (CONACyT) del Messico, e prima autrice dello studio.

“Indagini come questa dimostrano l’efficacia di un approccio evoluzionistico allo studio delle malattie, che è complementare, e non alternativo, a quello della ricerca biomedica”, aggiunge il professor Sazzini. “Questo approccio è infatti utile per approfondire la comprensione dei rischi per la salute umana connessi ai cambiamenti ambientali, ecologici e culturali a cui il nostro pianeta e tutte le sue popolazioni sono andati in contro in epoca moderna”.

 

AMBIENTI E CULTURE DIVERSE PLASMANO TRATTI BIOLOGICI DIVERSI

Analizzando il genoma di circa trecento individui appartenenti a 15 popolazioni indigene messicane gli studiosi hanno identificato una serie di macro-gruppi di popolazioni omogenei al loro interno dal punto di vista genetico. In questo modo è stato possibile prendere in esame in maniera aggregata popolazioni che presumibilmente hanno avuto una storia evolutiva comune: popoli che hanno vissuto per migliaia di anni in regioni geografiche limitrofe, sperimentando condizioni ambientali e organizzazioni sociali molto simili e intessendo una fitta rete di migrazioni e scambi commerciali.

“Queste analisi ci hanno permesso di mostrare che Seri e Rarámuri, gruppi etnici provenienti da differenti regioni del Messico settentrionale, così come cinque popolazioni originarie delle regioni centrali – tra cui i Nahua, che annoverano tra i loro antenati gli Aztechi – e otto popolazioni che occupano le regioni meridionali – inclusi i discendenti degli antichi Maya e Zapotechi –, hanno avuto storie indipendenti di adattamento biologico ai rispettivi contesti ecologici e culturali”, spiega Stefania Sarno, ricercatrice del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna che ha preso parte alla ricerca.

I Seri, ad esempio, hanno mostrato modificazioni peculiari in molti geni convolti nel metabolismo degli zuccheri, nei processi fisiologici legati alla percezione del gusto dolce e nella regolazione del livello di glucosio nel sangue. Una serie di caratteristiche evolute probabilmente in risposta ad una dieta che fino alla metà del secolo scorso è stata basata prevalentemente sul consumo di frutta, semi e piante succulente. Un modo, insomma, per ridurre i rischi associati ad un regime alimentare ricco di zuccheri.

I Rarámuri sono invece un gruppo semi-nomadico: coprono lunghe distanze nel corso di spostamenti stagionali e il mais è la loro fonte primaria di cibo. Nel loro genoma, gli studiosi hanno individuato combinazioni uniche di varianti su geni che regolano il metabolismo energetico, il consumo di ossigeno e la temperatura corporea durante uno sforzo fisico intenso e duraturo. Ma anche modificazioni genetiche che potenziano il funzionamento della barriera intestinale, lo strato di cellule dell’intestino che ha il compito di garantire l’assorbimento dei nutrienti e di bloccare l’entrata nel sistema circolatorio di sostante nocive. Questa barriera intestinale è il principale bersaglio delle micotossine che possono svilupparsi quando il mais viene conservato per lungo tempo.

Adattamenti genetici risultati invece svantaggiosi nel contesto degli stili di vita contemporanei sono quelli osservati nelle popolazioni delle regioni centrali del Messico. L’abituale consumo, nell’ambito di pratiche religiose e della medicina tradizionale, di piante con effetto psicoattivo endemiche di queste regioni e di bevande alcoliche fermentate ha infatti determinato nel corso dei millenni il mantenimento di varianti sui geni che codificano per i recettori del glutammato metabotropico e della dopamina e che modulano i meccanismi inibitori dei relativi sistemi di neurotrasmissione. Si tratta di caratteristiche che hanno permesso di aumentare la tolleranza nei confronti degli effetti nocivi di queste sostanze, conferendo però un più elevato rischio di sviluppare dipendenze. Tale rischio è stato aggravato dal recente stravolgimento delle diete tradizionali che ha determinato un sempre maggiore consumo di alcool e cibi che possono portare allo sviluppo di dipendenze patologiche.

Infine, i gruppi etnici originari del Messico meridionale presentano combinazioni di varianti genetiche in grado di ottimizzare le risposte immunitarie contro patogeni endemici di quest’area geografica, come ad esempio il tripanosoma responsabile della malattia di Chagas e il protozoo che causa la leishmaniosi cutanea. A differenza di quanto accade in svariate popolazioni del Sud America, in cui queste malattie sono molto diffuse e hanno spesso pericolose conseguenze, nelle popolazioni del Messico meridionale gli individui infetti non presentano generalmente comorbidità gravi nel caso della malattia di Chagas o addirittura sviluppano la leishmaniosi in forma asintomatica.

 

I PROTAGONISTI DELLO STUDIO

Lo studio, pubblicato sulla rivista Molecular Biology and Evolution con il titolo “Dietary, Cultural and Pathogens-related Selective Pressures Shaped Differential Adaptive Evolution Among Native Mexican Populations”, è stato coordinato da Marco Sazzini docente del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell’Università di Bologna e afferente all’Alma Mater Research Institute on Global Challenges and Climate Change.

Claudia Ojeda‐Granados ha firmato il lavoro come prima autrice, dopo aver ricevuto una borsa post-dottorale di due anni dal National Council of Science and Technology (CONACyT) del Messico per trasferirsi a Bologna e prendere parte al progetto condotto presso il Centro di Biologia Genomica del BiGeA in collaborazione con il programma di Integrative Biology del Cinvestav (Mexico). Per l’Università di Bologna hanno inoltre contribuito allo studio i ricercatori del BiGeA Stefania Sarno, Paolo Abondio e Sara De Fanti.

Infine, hanno collaborato alla ricerca Alice Setti del Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrata dell’Università di Trento, Guido Alberto Gnecchi Ruscone del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia (Germania), Héctor Rangel-Villalobos dell’Università di Guadalajara (Messico), insieme a Eduardo González-Orozco, Andres Jiménez-Kaufmann e Andrés Moreno-Estrada del National Laboratory of Genomics for Biodiversity del Cinvestav (Messico).