Legambiente presenta Ecomafia 2014: nomi e numeri dell’illegalità ambientale in Italia



    Sono 29.274 le infrazioni accertate nel 2013: più di 80 al giorno, più di 3 l’ora. In massima parte hanno riguardato il settore agroalimentare: ben il 25% del totale, con 9.540 reati (erano stati 4.173 nel 2012), mentre il 22% delle infrazioni ha interessato la fauna, il 15% i rifiuti e il 14% il ciclo del cemento.

    Il fatturato, sempre altissimo nonostante la crisi, ha sfiorato i 15 miliardi di euro grazie al coinvolgimento di numerosi clan (ben 321) che per i loro traffici hanno potuto contare spesso sull’aiuto di funzionari e dipendenti pubblici consenzienti o decisamente disonesti che hanno semplificato iter e processi autorizzativi in cambio di sostanziose mazzette. E se l’aggressione ai beni comuni continua senza sosta e senza troppi scossoni, cambia la geografia degli ecocrimini, sempre più insofferente ai confini territoriali e amministrativi (sia regionali che nazionali o internazionali), così come mutano le strategie criminali e il modus operandi. I rifiuti, ad esempio, non finiscono solo sotto terra, ma anche nei circuiti del riciclo in nero o del finto riciclo, i soldi incanalati nei circuiti finanziari internazionali.

    A questo vivace dinamismo degli ecocriminali fa da contraltare l’immobilismo della politica nazionale: nel nostro Paese vige ancora una legislazione a tutela dell’ambiente del tutto inadeguata, a carattere sostanzialmente contravvenzionale e basata su una vecchia impostazione che riconosce massimamente le ragioni dell’economia tralasciando i costi ambientali, sanitari e sociali.

    Ecomafia 2014, il dossier di Legambiente che monitora e denuncia puntualmente la situazione della criminalità ambientale – dedicato quest’anno alla memoria di Ilaria Alpi e Milan Hovratin, e del sostituto commissario di polizia Roberto Mancini, recentemente scomparso per la malattia contratta proprio a causa delle indagini sui traffici dei rifiuti condotte tra Campania e Lazio – è stato presentato questa mattina a Roma.

    “Reati ambientali e corruzione sono strettamente connessi”, ha dichiarato il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. “E all’inizio di quest’anno sembrava possibile uno scatto politico in avanti per affrontarli finalmente con strumenti adeguati. Il disegno di legge sui reati ambientali approvato alla Camera e la gestazione in Parlamento di un disegno di legge sulla corruzione sono iter necessari e a nostro avviso non più rinviabili. Invece, ancora una volta, sono bloccati. E gli inquinatori festeggiano. Perché senza l’approvazione della legge che inserisce i reati ambientali nel codice penale, che seppure troppo limitata e imperfetta rappresenterebbe un chiaro indirizzo e magari anche un punto di non ritorno nella lotta alle ecomafie, sarà difficile istituire inchieste e colpire gli ecocriminali che nonostante i danni pesantissimi inferti alla comunità e all’ambiente continueranno a farla franca”.

    Ecomafie in Emilia-Romagna

    Nel corso del 2013 la nostra regione ha registrato ben 837 infrazioni accertate, 1.219 denunce e 237 sequestri. Insieme ad altre regioni del Nord Italia, anche l’Emilia-Romagna si conferma quindi come uno dei “palcoscenici” prediletti dalla ‘ndrangheta e dei suoi alleati, come ha rilevato dalla Dna nella sua Relazione annuale, quando rileva che la nostra regione è al secondo posto in Italia per numero di “segnalazioni di matrice ‘ndranghetista” (ben 50), tallonando da vicino la capofila Lombardia che registra 55 segnalazioni.

    Seguendo la traccia dei soldi, una prima importante conferma di ciò proviene dal boom di operazioni finanziarie sospette pervenute all’Uif (Unità di informazione finanziaria) della Banca d’Italia: +20% rispetto all’anno precedente, che aveva registrato 5.192 operazioni, facendo balzare l’Emilia-Romagna al quarto posto in Italia dopo Lombardia (12.171), Lazio (7.877) e Campania (7.594).

    Una complessa geografia criminale nella nostra regione, che appare da questo punto di vista divisibile in tre macro-aree: l’Emilia, la Romagna e Bologna.

    Nel Capoluogo, infatti, “tutte le organizzazioni criminali nazionali – scrive la Dna – operano in una situazione di pacifica convivenza, con specifico riferimento al campo degli affari. Cioè investimenti di proventi delittuosi e/o acquisizione di appalti pubblici e commesse private, gestione del gioco d’azzardo”. Il “banchetto” offerto all’ombra delle Due Torri, a quanto pare, è talmente abbondante che è più conveniente spartirselo, piuttosto che contenderselo.

    La camorra ha puntato in particolare sulla Romagna, e, nella patria del divertimento, è ormai presente “ai massimi livelli del crimine organizzato casalese”. “Stabilmente inseriti in traffici illeciti nella Romagna” sono anche i clan Sacco e Stolder, entrambi napoletani. Da queste parti gli affari si fanno soprattutto con la droga e col riciclaggio nel settore immobiliare e in genere nel ciclo del cemento: hotel, ristoranti, discoteche, pub.

    In Emilia infine la “Nuova o altra ’ndrangheta” opera secondo il modello della delocalizzazione di fatto. Un modello preso e riadattato alla perfezione dal mondo dell’economia legale. Come un’impresa che, per ampliare le proprie opportunità di business, decida di aprire nuovi stabilimenti all’estero, così alcuni appartenenti a una cosca emigrano dal loro territorio di origine alla ricerca di nuovi e più vantaggiosi affari. E dove trovano terreno fertile attecchiscono e impongono la loro logica. “Migranti del crimine”, li definisce la Dna, che così spiega il loro modus operandi: il rapporto con la “casa madre” resta ben saldo, “senza che venga aperto un nuovo locale o una ‘ndrina distaccata e senza che si determinino invasioni sia del territorio di altri locali sia della sfera di attribuzioni e competenze del Crimine”. I “migranti del crimine” – eterodiretti dal locale d’origine – si limitano a fare soldi, per poi inviare le loro “rimesse” (in termini economici e criminali) a casa.

    Se tale è il contesto, non può certo stupire l’attenzione riservata dalle forze dell’ordine al controllo degli interventi avviati dopo il sisma che ha colpito l’Emilia-Romagna nel maggio del 2012.
    La ricostruzione delle zone terremotate – Abruzzo docet – è infatti uno degli affari più grossi e invitanti per i clan. E le mafie in Emilia l’hanno fiutato fin dalle prime ore, quando l’emergenza era lo smaltimento delle macerie: tonnellate di calcinacci, travi, mattoni, cemento e legno pagate a peso d’oro (50 euro a tonnellata, nelle prime settimane di emergenza).
    “Molti dei mezzi coinvolti nell’operazione – scrive il giornalista Giovanni Tizian in una sua inchiesta per l’Espresso datata gennaio 2013 – apparterrebbero ad aziende legate alla ’ndrangheta, che da tempo ha investito nelle province devastate dal sisma”.
    Per prevenire infiltrazioni nei lavori, sia pubblici sia privati, dall’agosto del 2012 in Emilia-Romagna è operativo il Girer, un gruppo interforze che sin dai primi mesi di attività, ha riposto la propria attenzione soprattutto sulla provincia di Modena, la più colpita dal sisma e anche quella in cui più forte e tangibile si è dimostrata la presenza delle cosche, in particolare quelle calabresi. Non stupisce dunque che, come ricorda ancora la Dna nell’ultima Relazione (2013), “tra i primi provvedimenti interdittivi deve essere segnalata l’informazione antimafia emessa dal prefetto di Modena nei confronti di una impresa locale di dimensioni rilevanti (circa 500 dipendenti), che si era aggiudicata significativi appalti sia della ricostruzione ‘pubblica’ che di quella ‘privata’”.

    Ma il controllo delle forze dell’ordine e delle autorità preposte deve essere supportato anche da una definitiva presa di coscienza e di riconoscimento della presenza mafiosa in regione da parte della cittadinanza. Per questo Legambiente Emilia Romagna ha partecipato ad un bando regionale nell’ambito delle “Politiche per la sicurezza e della polizia locale” con la proposta di un progetto dal titolo “Ecolegalità 2.0.”

    Il progetto, che vede coinvolti alcuni Istituti superiori di Bologna, Modena, Forlì e Parma, si concluderà a maggio 2015 dopo un percorso di coinvolgimento degli studenti non solo in un’attività di formazione sui temi dell’ecomafia, ma soprattutto nella preparazione di un prodotto educativo/comunicativo realizzato con strumenti in versione 2.0.

    “Così facendo – afferma Lidia Castagnoli della segreteria regionale di Legambiente – l’attività di sensibilizzazione dei ragazzi sul fenomeno delle ecomafie e dell’illegalità ambientale, e la promozione di una cultura del territorio come strumento di contrasto alla criminalità, si combinerà con la valorizzazione del loro protagonismo nella progettazione e nella realizzazione di prodotti di comunicazione capaci di essere efficacemente assimilatati dai loro coetanei”.

    A conclusione delle attività, il progetto prevede che le scuole coinvolte partecipino ad un concorso per il migliore prodotto educativo sull’ecomafia, premiato nel corso di un evento pubblico a valenza regionale durante il quale sarà presentato e dibattuto anche il Rapporto Ecomafia di Legambiente.